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sabato 29 dicembre 2007

Il paradosso errante di Eduardo Galeano

Hola carissim*,

a voi le brevi riflessioni storiche dello scrittore uruguagio >Eduardo Galeano comparse su >"Il Manifesto" di ieri.
Caire atque vale
Giuseppe

Il paradosso errante

Lezioni di storia Pillole di verità che rovesciano la «verità»

Eduardo Galeano

Ogni giorno, leggendo i giornali, assisto a una lezione di storia. I giornali mi insegnano con ciò che dicono e con ciò che non dicono.
La storia è un paradosso errante. È la contraddizione a farla muovere. Forse per questo i suoi silenzi dicono più delle sue parole e spesso le sue parole rivelano, mentendo, la verità.
Di qui a poco sarà pubblicato un mio libro che si chiama Specchi. È una specie di storia universale, e scusate se è poco. «Io posso resistere a qualsiasi cosa, meno alla tentazione», diceva Oscar Wilde, e confesso di aver ceduto alla tentazione di raccontare alcuni episodi dell'avventura umana nel mondo, dal punto di vista di coloro che non compaiono nella foto.
Si tratta, per così dire, di fatti non molto noti.
Ne riassumo qui alcuni, solo alcuni.

***
Quando furono cacciati dal Paradiso, Adamo ed Eva si trasferirono in Africa, non a Parigi.
Qualche tempo dopo, quando ormai i loro figli si erano sparpagliati per le strade del mondo, venne inventata la scrittura. In Iraq, non in Texas.
Anche l'algebra venne inventata in Iraq. La fondò Mohamed al-Jwarizmi, mille duecento anni fa, e la parola algoritmo deriva dal suo nome.
I nomi di solito non coincidono con ciò che denominano. Nel British Museum, tanto per fare un esempio, le sculture del Partenone si chiamano «statue de Elgin», ma sono statue di Fidia. Elgin era l'inglese che le vendette al museo.
Le tre novità che resero possibile il Rinascimento europeo, la bussola, la polvere da sparo e la stampa, erano state inventate dai cinesi, che inventarono anche quasi tutto quello che l'Europa ha re-inventato.
Gli indù avevano capito prima di tutti che la terra era rotonda e i Maya avevano creato il calendario più preciso di tutti i tempi.
***
Nel 1493, il Vaticano regalò l'America alla Spagna e fece dono dell'Africa nera al Portogallo, «affinché le nazioni barbare siano ricondotte alla fede cattolica». A quel tempo, l'America aveva un numero di abitanti quindici volte più grande di quello della Spagna e l'Africa nera cento volte più grande di quello del Portogallo.
Così come aveva ordinato il Papa, le nazioni barbare furono ricondotte...eccome.
***
Tenochtitlán, il centro dell'impero azteca, era d'acqua. Hernán Cortés demolì la città, fino all'ultima pietra, e con le macerie coprì i canali dove navigavano duecentomila canoe. Questa fu la prima guerra dell'acqua in America. Adesso Tenochtitlán si chiama Città del Messico. Dove scorreva l'acqua, corrono le automobili.
***
Il monumento più alto dell'Argentina era stato innalzato in omaggio al generale Roca, che nel XIX secolo aveva sterminato gli indios della Patagonia.
Il viale più lungo dell'Uruguay porta il nome del generale Rivera, che nel XIX secolo aveva sterminato gli ultimi indios charrúas.
***
John Locke, il filosofo della libertà, era azionista della Royal Africa Company, che comprava e vendeva schiavi.
Agli albori del diciottesimo secolo, il primo dei borboni, Filippo V, inaugurò il suo regno firmando un contratto con suo cugino, il re di Francia, affinché la Compagnie de Guinée vendesse neri in America. A ognuno dei due spettava un 25 per cento dei guadagni.
Nomi di alcune navi negriere: Voltaire, Rousseau, Gesù, Speranza, Uguaglianza, Amicizia.
Due dei Padri Fondatori degli Stati Uniti svanirono nella nebbia della storia ufficiale. Nessuno ricorda Robert Carter o Gouverner Morris. L'amnesia fu la ricompensa per i loro atti. Carter fu l'unico sostenitore dell'indipendenza che liberò i suoi schiavi. Morris, redattore della Costituzione, si oppose alla clausola secondo la quale uno schiavo equivaleva ai tre quinti di una persona.
«La nascita di una nazione», la prima superproduzione di Hollywood, venne proiettata per la prima volta nel 1915 alla Casa Bianca. Il presidente, Woodrow Wilson, la applaudì in piedi. Lui era l'autore dei testi del film, un canto razzista inneggiante al Ku Klux Klan.
***
Alcune date:
Dall'anno 1234 e per i sette secoli successivi la Chiesa Cattolica proibì che le donne cantassero nei templi. Le loro voci erano impure, per quella storia di Eva e del peccato originale.
Nell'anno 1783 il re di Spagna decretò che non erano disonorevoli i lavori manuali, i cosiddetti «mestieri umili», che fino ad allora avevano determinato la perdita della nobiltà.
Fino all'anno 1986 nelle scuole dell'Inghilterra era legale il castigo dei bambini con cinghie, verghe e bacchette.
***
In nome della libertà, dell'uguaglianza e della fratellanza, la rivoluzione Francese proclamò nel 1793 la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino. Allora, la militante rivoluzionaria Olympia de Gouges propose la Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina. La ghigliottina le tagliò la testa.
Mezzo secolo dopo, un altro governo rivoluzionario, durante la Prima Comune di Parigi, proclamò il suffragio universale. Allo stesso tempo, negò il diritto di voto alle donne per unanimità meno uno: 899 voti contrari, uno a favore.
***
L'imperatrice cristiana Teodora non disse mai di essere rivoluzionaria, né nulla di simile. Ma mille cinquecento anni fa l'impero bizantino fu, grazie a lei, il primo luogo al mondo dove l'aborto e il divorzio furono diritti delle donne.
***
Il generale Ulises Grant, vincitore nella guerra del nord industriale contro il sud schiavista fu poi presidente degli Stati Uniti.
Nel 1875, rispondendo alle pressioni britanniche, rispose:
-fra duecento anni, quando avremo ottenuto dal protezionismo tutto quello che ci può offrire, anche noi adotteremo il libero commercio.
Così, nell'anno 2075, la nazione più protezionista del mondo adotterà il libero commercio.
***
Lootie, «Piccolo bottino», fu il primo cane pechinese a giungere in Europa. Arrivò a Londra nel 1860. Gli inglesi lo battezzarono così perché faceva parte del bottino strappato alla Cina, alla fine delle due lunghe guerre dell'oppio.
Vittoria, la regina del narcotraffico, aveva imposto l'oppio a cannonate. La Cina fu trasformata in una nazione di drogati, in nome della libertà, la libertà del commercio.
In nome della libertà, la libertà del commercio, il Paraguay fu distrutto nel 1870. Dopo una guerra di cinque anni, questo paese, l'unico paese delle Americhe che non doveva un centesimo a nessuno, inaugurò il suo debito estero. Alle sue fumanti rovine giunse, da Londra, il primo prestito. Fu destinato per pagare un enorme indennizzo al Brasile, all'Argentina e all'Uruguay. Il Paese assassinato pagò ai paesi assassini lo sforzo che avevano fatto per assassinarlo.
***
Anche Haiti pagò un enorme indennizzo. Da quando nel 1804 aveva conquistato la sua indipendenza, la nuova nazione distrutta per un secolo e mezzo dovette pagare alla Francia una fortuna per espiare il peccato della sua libertà.
***
Le grandi imprese negli Stati Uniti godono dei diritti umani. Nel 1886 la Suprema Corte di Giustizia estese i diritti umani alle corporazioni private ed è ancora così.
Pochi anni dopo, in difesa dei diritti umani delle loro imprese, gli Stati Uniti invasero dieci paesi, in diversi mari del mondo.
Allora Mark Twain, dirigente della Lega Antimperialista, propose una nuova bandiera, con piccoli teschi al posto delle stelle, e un altro scrittore, Ambrose Bierce, ebbe a sentenziare:
-La guerra è il cammino scelto da Dio per insegnarci la geografia.
***
I campi di concentramento nacquero in Africa. Gli inglesi iniziarono l'esperimento e i tedeschi lo misero a punto. Hermann Göring applicò in Germania il modello che il suo papà aveva sperimentato, nel 1904, in Namibia. I maestri di Joseph Mengele avevano studiato, nel campo di concentramento della Namibia, l'anatomia delle razze inferiori. I cobayos erano tutti neri.
***
Nel 1936, il Comitato Olimpico Internazionale non tollerava insolenze. Nelle Olimpiadi del 1936, organizzate da Hitler, la squadra di calcio del Perù sconfisse per 4 a 2 quella dell'Austria, il paese natale del Führer. Il Comitato Olimpico annullò la partita.
***
A Hitler non mancarono amici. La Fondazione Rockefeller finanziò ricerche razziali e razziste della medicina nazi. La Coca-Cola inventò la Fanta, in piena guerra, per il mercato tedesco. L'Ibm rese possibile l'identificazione e la classificazione degli ebrei e questa fu la prima applicazione su vasta scala del sistema delle schede perforate.
***
Nel 1953 scoppiò la protesta operaia nella Germania comunista. I lavoratori occuparono le strade e i carri armati tedeschi si incaricarono di farli star zitti. Allora Bertold Brecht propose: «Non sarebbe più facile che il governo sciogliesse il popolo e ne scegliesse un altro?»
***
Operazione marketing. L'opinione pubblica è il target. Le guerre si vendono mentendo, così come si vendono le automobili.
Nel 1964 gli Stati Uniti invasero il Vietnam, perché il Vietnam aveva attaccato due navi degli Stati Uniti nel golfo di Tonchino. Quando la guerra aveva già fatto fuori un sacco di vietnamiti, il ministro della Difesa, Robert McNamara, ammise che l'attacco di Tonchino non c'era mai stato.
Quarant'anni dopo, la storia si è ripetuta in Iraq.
***
Migliaia di anni prima che l'invasione nordamericana portasse la Civiltà in Iraq, in quella terra barbara era nato il primo poeta d'amore della storia universale. In lingua sumera, scritto sull'argilla, il poeta narrò l'incontro di una dea e di un pastore. Inanna, la dea, quella notte amò come se fosse mortale. Damuzi, il pastore, quella notte fu immortale.
***
Paradossi erranti, paradossi intriganti:
L'Aleijandinho, l'uomo più brutto del Brasile, creò le più belle sculture dell'era coloniale americana.
Il libro di viaggi di Marco Polo, avventura della libertà, fu scritto nel carcere di Genova.
Don Chisciotte della Mancia, altra avventura della libertà, nacque nel carcere di Siviglia.
Furono dei nipoti degli schiavi neri a creare il jazz, la più libera delle musiche.
Uno dei migliori chitarristi jazz, il gitano Django Reinhardt, aveva solo due dita nella mano sinistra.
Non aveva mani Grimod de la Reynière, il grande maestro della cucina francese. Scriveva, cucinava e mangiava con un uncino.
Copyright IPS
traduzione Marcella Trambaioli

Editoriale di Tariq Ali e intervista al giornalista pachistano Ahmad Ejaz su Omicidio Benazir Bhutto

Hola carissim*,

vi rigiro l'editoriale di Tariq Ali pubblicato su "Il Manifesto" di ieri in merito all'omicidio di Benazir Bhutto; sullo stesso tragico evento è molto interessante anche l'intervista al giornalista pachistano Ahmad Ejaz fatta da Gianluca Ursini di Peace Reporter.


L'esito finale del dispotismo
Tariq Ali

Anche quelli di noi che avevano criticato aspramente il comportamento e le scelte politiche di Benazir Bhutto - sia quando era al potere che più di recente - sono sbalorditi e arrabbiati per la sua morte. L'indignazione e la paura tormentano ancora una volta il paese. È stata questa bizzarra coesistenza di dispotismo militare e anarchia a creare le condizioni che hanno portato al suo assassinio, avvenuto ieri a Rawalpindi. In passato il governo militare aveva la pretesa di garantire l'ordine, e per alcuni anni lo ha fatto. Ora non più. Oggi esso crea disordine, promuove l'assenza della legge. In quale altro modo possiamo spiegare il licenziamento del presidente e di altri otto giudici della Corte suprema pakistana, cacciati per aver tentato di rendere la polizia e le agenzie di intelligence responsabili del loro operato davanti ai giudici?
Quelli che hanno preso il loro posto non hanno il fegato di fare niente, figuriamoci condurre un'inchiesta sui misfatti di quelle agenzie, un'inchiesta che incoraggi a giungere alla verità che sta dietro l'omicidio, accuratamente organizzato, di una importante leader politica. Come può il Pakistan, oggi, essere altro che un luogo dove esplode la disperazione? Si dà per scontato che gli uccisori fossero dei fanatici jihadisti. È possibile che sia vero, ma hanno agito da soli?
Secondo le persone che le erano vicine, Benazir era stata tentata di boicottare le elezioni truccate, ma le è mancato il coraggio politico di sfidare Washington. Aveva moltissimo coraggio fisico e si era rifiutata di lasciarsi intimorire dalle minacce provenienti da oppositori locali. Aveva tenuto un comizio elettorale al Liaquat Bagh, un famoso parco intitolato al primo premier del paese, Liaquat Ali Khan, ucciso da un killer solitario nel 1953. Il suo assassino, Said Akbar, fu immediatamente ucciso a sua volta per ordine di un ufficiale di polizia coinvolto nel complotto.
Un tempo, non lontano da lì sorgeva una struttura coloniale dove venivano tenuti prigionieri i nazionalisti. Era il carcere di Rawalpindi. È qui che il padre di Benazir, Zulfiqar Ali Bhutto, fu impiccato nell'aprile 1979. Il tiranno militare responsabile del suo omicidio legalizzato volle che il luogo della tragedia fosse distrutto.
La morte di Bhutto avvelenò le relazioni tra il suo Partito del popolo pakistano e l'esercito. Gli attivisti del Partito, in particolare nella provincia di Sind, furono brutalmente torturati, umiliati, e in alcuni casi sparirono o furono uccisi.
La turbolenta storia pakistana, risultato dei continui governi militari e di alleanze globali impopolari, mette ora di fronte a scelte serie l'élite al potere. Questa non sembra affatto avere intenzioni positive. La stragrande maggioranza del paese disapprova la politica estera del governo. La gente è arrabbiata per la mancanza di una seria politica interna, a parte l'arricchimento ulteriore di un'élite insensibile e avida comprendente un esercito gonfiato e parassitario, e ora assiste impotente all'omicidio di leader politici davanti ai suoi occhi.
Ieri Benazir era sopravvissuta allo scoppio della bomba, ma è stata abbattuta dai proiettili che hanno colpito la sua automobile. Gli assassini, memori di avere fallito a Karachi un mese fa, questa volta avevano raddoppiato le cautele. La volevano morta.
Ora è impossibile che si tengano le elezioni politiche, sia pure truccate. Bisognerà rimandarle, e l'alto comando dell'esercito senza dubbio sta considerando un'altra dose di governo militare se la situazione dovesse peggiorare, cosa assai probabile. Quella che si è verificata ieri è una tragedia a più livelli. È una tragedia per un paese che si avvia verso altri disastri. Uragani e cicloni lo aspettano. Ed è una tragedia personale. La casa della famiglia Bhutto ha perso un altro membro. Padre, due figli, e ora una figlia, sono tutti morti di morte violenta. Incontrai Benazir per la prima volta a Karachi, a casa di suo padre, quando lei era un'adolescente che amava divertirsi e poi, più tardi, quando era a Oxford. Non era una politica «naturale»: aveva sempre desiderato intraprendere la carriera diplomatica, ma la storia e la tragedia personale l'hanno spinta nell'altra direzione. La morte di suo padre l'aveva trasformata. Era diventata una persona nuova, determinata a sfidare il dittatore militare dell'epoca. Si era trasferita in un minuscolo appartamento a Londra, dove discutevamo per ore e ore sul futuro del paese. Pensava anche lei che le riforme agrarie, le campagne di alfabetizzazione di massa, l'assistenza sanitaria e una politica estera indipendente fossero obiettivi concreti e cruciali, se si voleva salvare il paese dagli avvoltoi con o senza uniforme. Il suo elettorato era costituito dai poveri, e ne andava fiera. Dopo essere diventata premier, cambiò di nuovo. Inizialmente discutevamo e, in risposta alle mie numerose proteste, si limitava a osservare che il mondo era cambiato. Non poteva stare «dalla parte sbagliata» della storia. E così, come tanti altri, fece la sua pace con Washington. È stato questo che, alla fine, ha portato all'accordo con Musharraf e al suo ritorno a casa dopo oltre un decennio di esilio. In una serie di occasioni, in passato, mi disse che non temeva la morte. Era uno dei pericoli, per chi fa politica in Pakistan. È difficile immaginare che da questa tragedia possa scaturire qualcosa di buono, ma c'è una possibilità. Il Pakistan ha disperatamente bisogno di un partito politico capace di esprimere i bisogni sociali di una massa di persone. Il partito del popolo fondato da Zulfiqar Ali Bhutto fu costruito dagli attivisti dell'unico movimento popolare di massa che il paese abbia mai conosciuto: gli studenti, i contadini e i lavoratori, che combatterono per tre mesi, nel 1968-69, per rovesciare il primo dittatore militare del paese. Essi lo vedevano come il loro partito e questo sentimento, nonostante tutto, in alcune parti del paese resiste ancora. La terribile morte di Benazir dovrebbe spingere i suoi colleghi a una pausa di riflessione. Talvolta dipendere da una persona o da una famiglia può essere necessario, ma per un'organizzazione politica è una debolezza strutturale, non una forza. Il Partito del popolo ha bisogno di essere rifondato come un'organizzazione moderna e democratica aperta alla discussione e a un dibattito onesto, che difenda i diritti umani e sociali, che unisca i diversi gruppi e i singoli individui che in Pakistan sono alla disperata ricerca di una qualsiasi alternativa appena decente, e che faccia proposte concrete per stabilizzare un Afghanistan occupato e devastato dalla guerra. Questo può e deve essere fatto. Alla famiglia Bhutto non si chiedano altri sacrifici.
Tariq Ali
Trad. Marina Impallomeni

venerdì 28 dicembre 2007

Gli auguri di Eugenio Melandri

Hola carissim*,

vi rigiro gli auguri per queste feste di Eugenio Melandri.

Caire atque vale

Giuseppe

Corre inesorabilmente il tempo. Siamo di nuovo alla fine di un anno. E, di
nuovo, da una parte guardiamo indietro, per capire dove siamo arrivati e,
dall’altra, gettiamo lo sguardo oltre il muro, per cogliere il futuro che ci
aspetta.
La vita di ognuno di noi puo’ paragonarsi a un viaggio. Giorno dopo giorno,
ora dopo ora. Con la sfida, insita nella nostra stessa umanita’, di lasciare
a chi verra’ dopo di noi un mondo piu’ abitabile e piu’ umano.
Fa parte del nostro universo culturale la speranza in un domani migliore:
l’eta’ dell’oro sta davanti a noi, non dietro di noi. Un atto di fede che ci
permette di impegnarci, di lavorare, spesso anche instancabilmente, di
soffrire, a volte anche di morire, pur di dare mani, gambe, vita a questo
futuro migliore. Anche quando le cose non marciano come vorremmo. Anche se
ci sono difficolta’ che sembrano insormontabili.
E arriviamo cosi’ al cuore piu’ profondo dell’essere umano. Piccolo e
fragile, come il Bambino della grotta di Betlem, come ogni bambino che,
nascendo, porta una carica di novita’ a questo vecchio mondo. Ma, allo
stesso tempo, grande e suggestivo, unico e irripetibile.
Il poeta indiano Tagore scriveva che ogni bambino che nasce ci da’ la
certezza che Dio non si e’ ancora stancato di noi. E’ vero, ogni nascita e’
un miracolo. E’ l’incarnarsi della speranza. Il farsi storia dell’utopia. Al
di la’ della fede di ognuno, Natale, ogni Natale, in qualsiasi parte del
mondo avvenga - e’ questo irrompere strepitoso di vita dentro la nostra
stanchezza.
Non e’ strano che proprio a dicembre, alla fine di un anno di storia, siamo
quasi costretti a porci le domande di fondo, che toccano la nostra identita’
umana. A incontrarci con la vita che ha il volto di un bambino che nasce.
Lontano dai palazzi. Avvolto in pochi panni. Deposto in una greppia. A
significare la grandezza di ogni vita. Al di la’ delle ricchezze, del
potere, degli orpelli che tanto facilmente costruiamo perche’ ci manca il
coraggio di andare all’essenza delle cose.
Ogni persona che nasce in questo mondo e’ unica e irripetibile. Va amata e
rispettata in se stessa. Non per quello che ha, ma per quello che e’. Non
per le cose che fa, ma per la novita’ di cui e’ portatrice.
Sessant’anni fa veniva promulgata la carta universale dei diritti umani. E’
vero: ancora oggi, a tanti anni di distanza, troppe persone non hanno ancora
la possibilita’ di godere pienamente di questi diritti. E’ il segno della
grande contraddizione che ci portiamo dentro. Siamo capaci di rinnovare ogni
giorno il miracolo della vita che nasce come frutto d’amore, ma siamo anche
capaci di rifiutare le vita, di renderla dura e difficile. Perfino di dare
la morte. Ma e’ pur anche vero che - e la proclamazione della carta dei
diritti umani lo dimostra - ci portiamo dentro la nostalgia di un mondo dove
la vita di tutti sia posta al centro, sia davvero e sempre rispettata come
sacra.
Dicembre e’ un mese di confine. Da un lato ci richiama alla vita che nasce,
e dall’altro “con il morire dell’anno” ci spinge a fare i conti con la
nostra fine. Con la morte. Perche’ e’ vero che quando nasciamo cominciamo a
morire.
Forse per dirci che, se vogliamo dare un senso profondo ed umano anche al
nostro dover morire, siamo sfidati a fare di tutto perche’ ad ogni bambino
che nasce sia data la possibilita’ di vivere. E di vivere in pienezza.
Auguri
Eugenio

domenica 23 dicembre 2007

Festeggiamo la moratoria sulle esecuzioni: a Napoli Avitabile, Khaled e Bregovic nel concerto di Capodanno dedicato ad Amnesty International

Vi rigiro testualmente il comunicato di Amnesty Iternational.

"Festeggiamo la moratoria sulle esecuzioni": a Napoli Enzo Avitabile, Khaled e Goran Bregovic nel concerto di Capodanno dedicato ad Amnesty International

Il grande concerto di Capodanno di Napoli sarà quest’anno dedicato ad Amnesty International e alla sua campagna per l’abolizione della pena di morte.

A celebrare l’inizio del 2008 in piazza del Plebiscito ci saranno Enzo Avitabile, Khaled e Goran Bregovic.

“Vogliamo iniziare con la musica, insieme a decine di migliaia di persone, un anno fondamentale nella campagna per l’abolizione della pena di morte” - ha detto Enzo Avitabile, storico testimonial di Amnesty International e promotore dell’iniziativa.

“Quella di Napoli sarà una grande notte di spettacolo per festeggiare la storica risoluzione adottata dalle Nazioni Unite martedì 18 dicembre, che ha introdotto una moratoria sulle esecuzioni” – ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce della Sezione Italiana di Amnesty International.

L’associazione esprime profondo apprezzamento per la sensibilità dimostrata dagli artisti e dall’assessora al Turismo, grandi eventi, spettacoli e pari opportunità del Comune di Napoli, dott.ssa Valeria Valente.

Una buona notizia: l'ONU ha approvato la mozione per la moratoria della pena di morte


Hola carissim*,
ogni tanto una bella notizia, che ce ne era proprio bisogno: settimana scorsa l'Assemblea dell'ONU ha approvato la moratoria della pena di morte; 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti, un risultato migliore di quanto ci si aspettasse. E' solo un primo passo, ma importante e soprattutto di buon augurio per l'anno che viene.
Ma siccome noi non ci accontentiamo mai, ora puntiamo ad altre moratorie: quella assoluta delle guerre e quello degli omicidi sul lavoro (che ancora qualcuno chiama incidenti...); in merito a ciò vi rigiro i commenti di Enrico Peyretti e Gabriele Polo.
Caire atque vale
Giuseppe


Il 18 dicembre l'Italia ha ottenuto dall'Assemblea dell'Onu la moratoria
delle esecuzioni delle sentenze di morte. Ottima cosa. Sara' rispettata? A
quando la moratoria effettiva - gia' dichiarata nel 1928 nel patto
Briand-Kellogg e poi nella Carta dell'Onu - della guerra? Le vittime della
guerra sono innocenti, non hanno neppure le colpe delle vittime dei
tribunali. Queste potrebbero dire, riguardo alle prime, le parole generose
di quel ladrone: "Noi riceviamo la giusta pena, lui invece non ha fatto
nulla di male". Oggi gli stati che accetteranno la moratoria tireranno giu'
il ladrone dalla croce, ma vi lasceranno l'innocente, oggi che la croce e'
la guerra tecnologica contro i popoli.
Enrico Peyretti

Ci son voluti più di duecentocinquant'anni perché i princìpi illustrati da Cesare Beccaria nel suo famoso libretto su delitti e pene assumessero la forma solenne del voto con cui l'Onu ha chiesto la fine del castigo mortale con cui gli stati si fanno boia. E ci sono voluti quasi sessant'anni per tradurre la dichiarazione dei diritti fondamentali degli uomini delle Nazioni unite in un atto che - almeno a livello di principio - garantisca il più elementare tra i diritti, quello all'esistenza, senza negare il dovere del giudizio morale e giuridico sulle azioni dei singoli individui. Ma nonostante questi ritardi bisogna salutare con gioia la moratoria votata ieri: un atto di civiltà che magari non eviterà nuovi delitti di stato mache ridà forza e dignità a un organismo internazionale troppo spesso svuotato e reso «innocuo». E, in tempi in cui la forza prevale sul diritto, non è poca cosa. Il voto di ieri è stato anche un successo del nostro governo. L'Italia, all'inizio, è stata tirata un po' per i capelli in questa avventura internazionale: in troppi dicevano che non sarebbe stato possibile, che gli Usa lo avrebbero impedito e che - in subordine - fare un dispetto all'amico americano sarebbe risultato sgradevole o inopportuno. Ma così non è stato e, alla fine, il governo di centrosinistra sulla moratoria si è molto impegnato. E di ciò gli va dato atto. Semmai stride un po' la contraddizione evidente tra quest'impegno per i diritti individuali a livello internazionale e l'incapacità di tradurla sul piano interno[...]Tuttavia non si può avere tutto nella vita e, per oggi, incassiamo il voto dell'Onu e la bella figura che ci facciamo dentro. Eppure in questa felice giornata c'è qualcosa che offusca la messa in mora della pena di morte. E' un'altra pena, quella della strage continua che avviene sui luoghi di lavoro. Lì di moratoria non si parla proprio: ieri cinque morti in poche ore, una media impressionante, che getta al vento tutti i pianti fatti dopo la strage di Torino, che sembra render vano ogni provvedimento in materia di sicurezza sul lavoro. Perché, in questo caso (e ancor di più che sulla pena di morte), nessun voto e nessun provvedimento giuridico può bastare senza prima rimettere il ruolo del lavoro e le condizioni dei lavoratori al centro dell'interesse comune. Con una svolta di 180 gradi rispetto alla mercificazione operata nell'ultimo ventennio. Una scelta politica da cui, poi, potrebbero venire le leggi, i contratti, gli stanziamenti per garantire al sicurezza sul lavoro. Cioè per pensare alla vita finché è ancora viva.
Gabriele Polo

sabato 22 dicembre 2007

Amleto a Rebibbia

Hola Carissim*,
mi sembra una segnalazione interessante.
Caire atque vale
Giuseppe

La Ribalta (Centro Studi e Archivio Storico Enrico Maria Salerno) con Blob e la Compagnia dei Liberi Artisti Associati Rebibbia N.C. Vi augurano Buone Feste con Amleto a Rebibbia Lunedì 24 dicembre alle 20.10 su RAI 3

Discorso di Doris Lessing per il Premio Nobel

Hola carissim*,
ho ricevuto questo testo da un carissimo amico e lo condivido con voi con molto piacere.
Grazie Alberto
Caire atque vale

Cari amici,

come saprete Doris Lessing ha ricevuto il Nobel per la Letteratura.
Per motivi di salute non ha potuto partecipare alla cerimonia a Stoccolma, inviando un discorso che è stato letto dal suo editore inglese.
L'ho letto sul sito di The Guardian e l'ho salvato.
Lo considero un grande discorso d'amore. Amore per i libri, per la conoscenza, per la letteratura, per l'Africa. Ma soprattutto amore per la vita e desiderio di un mondo più equo.
Ve lo mando nella speranza che susciti in voi le stesse emozioni che ha suscitato in me.

Con i migliori auguri di Buon Natale e buone festività.

Alberto


A hunger for books

Last night Doris Lessing, aged 88, was awarded the Nobel Prize for
Literature. In her acceptance speech she recalls her childhood in Africa
and laments that children in Zimbabwe are starving for knowledge, while
those in more privileged countries shun reading for the 'inanities' of the
internet

Saturday December 8, 2007
The Guardian


I am standing in a doorway looking through clouds of blowing dust to where
I am told there is still uncut forest. Yesterday I drove through miles of
stumps, and charred remains of fires where, in 1956, there was the most
wonderful forest I have ever seen, all now destroyed. People have to eat.
They have to get fuel for fires.
This is north-west Zimbabwe early in the 80s, and I am visiting a friend
who was a teacher in a school in London. He is here "to help Africa", as
we put it. He is a gently idealistic soul and what he found in this school
shocked him into a depression, from which it was hard to recover. This
school is like every other built after Independence. It consists of four
large brick rooms side by side, put straight into the dust, one two three
four, with a half room at one end, which is the library. In these
classrooms are blackboards, but my friend keeps the chalks in his pocket,
as otherwise they would be stolen. There is no atlas or globe in the
school, no textbooks, no exercise books or Biros. In the library there are
no books of the kind the pupils would like to read, but only tomes from
American universities, hard even to lift, rejects from white libraries,
detective stories, or titles like Weekend in Paris and Felicity Finds
Love.
There is a goat trying to find sustenance in some aged grass. The
headmaster has embezzled the school funds and is suspended. My friend
doesn't have any money because everyone, pupils and teachers, borrow from
him when he is paid and will probably never pay it back. The pupils range
from six to 26, because some who did not get schooling as children are
here to make it up. Some pupils walk many miles every morning, rain or
shine and across rivers. They cannot do homework because there is no
electricity in the villages, and you can't study easily by the light of a
burning log. The girls have to fetch water and cook before they set off
for school and when they get back.
As I sit with my friend in his room, people shyly drop in, and everyone
begs for books. "Please send us books when you get back to London," one
man says. "They taught us to read but we have no books." Everybody I met,
everyone, begged for books.
I was there some days. The dust blew. The pumps had broken and the women
were having to fetch water from the river. Another idealistic teacher from
England was rather ill after seeing what this "school" was like.
On the last day they slaughtered the goat. They cut it into bits and
cooked it in a great tin. This was the much anticipated end-of-term feast:
boiled goat and porridge. I drove away while it was still going on, back
through the charred remains and stumps of the forest.
I do not think many of the pupils of this school will get prizes.
The next day I am to give a talk at a school in North London, a very good
school. It is a school for boys, with beautiful buildings and gardens. The
children here have a visit from some well-known person every week: these
may be fathers, relatives, even mothers of the pupils; a visit from a
celebrity is not unusual for them.
As I talk to them, the school in the blowing dust of north-west Zimbabwe
is in my mind, and I look at the mildly expectant English faces in front
of me and try to tell them about what I have seen in the last week.
Classrooms without books, without textbooks, or an atlas, or even a map
pinned to a wall. A school where the teachers beg to be sent books to tell
them how to teach, they being only 18 or 19 themselves. I tell these
English boys how everybody begs for books: "Please send us books." But
there are no images in their minds to match what I am telling them: of a
school standing in dust clouds, where water is short, and where the
end-of-term treat is a just-killed goat cooked in a great pot.
Is it really so impossible for these privileged students to imagine such
bare poverty?
I do my best. They are polite.
I'm sure that some of them will one day win prizes.
Then the talk is over. Afterwards I ask the teachers how the library is,
and if the pupils read. In this privileged school, I hear what I always
hear when I go to such schools and even universities. "You know how it
is," one of the teachers says. "A lot of the boys have never read at all,
and the library is only half used."
Yes, indeed we do know how it is. All of us.
We are in a fragmenting culture, where our certainties of even a few
decades ago are questioned and where it is common for young men and women,
who have had years of education, to know nothing of the world, to have
read nothing, knowing only some speciality or other, for instance,
computers.
What has happened to us is an amazing invention - computers and the
internet and TV. It is a revolution. This is not the first revolution the
human race has dealt with. The printing revolution, which did not take
place in a matter of a few decades, but took much longer, transformed our
minds and ways of thinking. A foolhardy lot, we accepted it all, as we
always do, never asked: "What is going to happen to us now, with this
invention of print?" In the same way, we never thought to ask, "How will
our lives, our way of thinking, be changed by the internet, which has
seduced a whole generation with its inanities so that even quite
reasonable people will confess that, once they are hooked, it is hard to
cut free, and they may find a whole day has passed in blogging etc?"
Very recently, anyone even mildly educated would respect learning,
education and our great store of literature. Of course we all know that
when this happy state was with us, people would pretend to read, would
pretend respect for learning. But it is on record that working men and
women longed for books, evidenced by the founding of working-men's
libraries, institutes, and the colleges of the 18th and 19th centuries.
Reading, books, used to be part of a general education. Older people,
talking to young ones, must understand just how much of an education
reading was, because the young ones know so much less.
We all know this sad story. But we do not know the end of it. We think of
the old adage, "Reading maketh a full man" - reading makes a woman and a
man full of information, of history, of all kinds of knowledge.
Not long ago, a friend in Zimbabwe told me about a village where the
people had not eaten for three days, but they were still talking about
books and how to get them, about education.
I belong to an organisation which started out with the intention of
getting books into the villages. There was a group of people who in
another connection had travelled Zimbabwe at its grassroots. They told me
that the villages, unlike what is reported, are full of intelligent
people, teachers retired, teachers on leave, children on holidays, old
people. I myself paid for a little survey to discover what people in
Zimbabwe wanted to read, and found the results were the same as those of a
Swedish survey I had not known about. People want to read the same kind of
books that people in Europe want to read - novels of all kinds, science
fiction, poetry, detective stories, plays, and do-it-yourself books, like
how to open a bank account. All of Shakespeare too. A problem with finding
books for villagers is that they don't know what is available, so a set
book, like The Mayor of Casterbridge, becomes popular simply because it
just happens to be there. Animal Farm, for obvious reasons, is the most
popular of all novels.
Our organisation was helped from the very start by Norway, and then by
Sweden. Without this kind of support our supplies of books would have
dried up. We got books from wherever we could. Remember, a good paperback
from England costs a month's wages in Zimbabwe: that was before Mugabe's
reign of terror. Now, with inflation, it would cost several years' wages.
But having taken a box of books out to a village - and remember there is a
terrible shortage of petrol - I can tell you that the box was greeted with
tears. The library may be a plank on bricks under a tree. And within a
week there will be literacy classes - people who can read teaching those
who can't, citizenship classes - and in one remote village, since there
were no novels written in the Tonga language, a couple of lads sat down to
write novels in Tonga. There are six or so main languages in Zimbabwe and
there are novels in all of them: violent, incestuous, full of crime and
murder.
It is said that a people gets the government it deserves, but I do not
think it is true of Zimbabwe. And we must remember that this respect and
hunger for books comes, not from Mugabe's regime, but from the one before
it, the whites. It is an astonishing phenomenon, this hunger for books,
and it can be seen everywhere from Kenya down to the Cape of Good Hope.
This links up improbably with a fact: I was brought up in what was
virtually a mud hut, thatched. This kind of house has been built always,
everywhere where there are reeds or grass, suitable mud, poles for walls -
Saxon England, for example. The one I was brought up in had four rooms,
one beside another, and it was full of books. Not only did my parents take
books from England to Africa, but my mother ordered books by post from
England for her children. Books arrived in great brown paper parcels, and
they were the joy of my young life. A mud hut, but full of books.
Even today I get letters from people living in a village that might not
have electricity or running water, just like our family in our elongated
mud hut. "I shall be a writer too," they say, "because I've the same kind
of house you were in."
But here is the difficulty. Writing, writers, do not come out of houses
without books.
I have been looking at the speeches by some of the recent Nobel
prizewinners. Take last year's winner, the magnificent Orhan Pamuk. He
said his father had 500 books. His talent did not come out of the air, he
was connected with the great tradition. Take VS Naipaul. He mentions that
the Indian Vedas were close behind the memory of his family. His father
encouraged him to write, and when he got to England he would visit the
British Library. So he was close to the great tradition. Let us take John
Coetzee. He was not only close to the great tradition, he was the
tradition: he taught literature in Cape Town. And how sorry I am that I
was never in one of his classes; taught by that wonderfully brave, bold
mind. In order to write, in order to make literature, there must be a
close connection with libraries, books, the tradition.
I have a friend from Zimbabwe, a black writer. He taught himself to read
from the labels on jam jars, the labels on preserved fruit cans. He was
brought up in an area I have driven through, an area for rural blacks. The
earth is grit and gravel, there are low sparse bushes. The huts are poor,
nothing like the well-cared-for huts of the better off. There was a
school, but like the one I have described. He found a discarded children's
encyclopaedia on a rubbish heap and taught himself from that.
On Independence in 1980 there was a group of good writers in Zimbabwe,
truly a nest of singing birds. They were bred in old Southern Rhodesia,
under the whites - the mission schools, the better schools. Writers are
not made in Zimbabwe, not easily, not under Mugabe.
All the writers travelled a difficult road to literacy, let alone to
becoming writers. I would say learning to read from the printed labels on
jam jars and discarded encyclopaedias was not uncommon. And we are talking
about people hungering for standards of education beyond them, living in
huts with many children - an overworked mother, a fight for food and
clothing.
Yet despite these difficulties, writers came into being. And we should
also remember that this was Zimbabwe, conquered less than 100 years
before. The grandparents of these people might have been storytellers
working in the oral tradition. In one or two generations, the transition
was made from these stories remembered and passed on, to print, to books.
Books were literally wrested from rubbish heaps and the detritus of the
white man's world. But a sheaf of paper is one thing, a published book
quite another. I have had several accounts sent to me of the publishing
scene in Africa. Even in more privileged places like North Africa, to talk
of a publishing scene is a dream of possibilities.
Here I am talking about books never written, writers who could not make it
because the publishers are not there. Voices unheard. It is not possible
to estimate this great waste of talent, of potential. But even before that
stage of a book's creation which demands a publisher, an advance,
encouragement, there is something else lacking.
Writers are often asked: "How do you write? With a word processor? an
electric typewriter? a quill? longhand?" But the essential question is:
"Have you found a space, that empty space, which should surround you when
you write? Into that space, which is like a form of listening, of
attention, will come the words, the words your characters will speak,
ideas - inspiration." If a writer cannot find this space, then poems and
stories may be stillborn. When writers talk to each other, what they
discuss is always to do with this imaginative space, this other time.
"Have you found it? Are you holding it fast?"
Let us now jump to an apparently very different scene. We are in London,
one of the big cities. There is a new writer. We cynically enquire: "Is
she good-looking?" If this is a man: "Charismatic? Handsome?" We joke, but
it is not a joke.
This new find is acclaimed, possibly given a lot of money. The buzzing of
hype begins in their poor ears. They are feted, lauded, whisked about the
world. Us old ones, who have seen it all, are sorry for this neophyte, who
has no idea of what is really happening. He, she, is flattered, pleased.
But ask in a year's time what he or she is thinking: "This is the worst
thing that could have happened to me."
Some much-publicised new writers haven't written again, or haven't written
what they wanted to, meant to. And we, the old ones, want to whisper into
those innocent ears: "Have you still got your space? Your soul, your own
and necessary place where your own voices may speak to you, you alone,
where you may dream. Oh, hold on to it, don't let it go."
My mind is full of splendid memories of Africa that I can revive and look
at whenever I want. How about those sunsets, gold and purple and orange,
spreading across the sky at evening? How about butterflies and moths and
bees on the aromatic bushes of the Kalahari? Or, sitting on the pale
grassy banks of the Zambesi, the water dark and glossy, with all the birds
of Africa darting about? Yes, elephants, giraffes, lions and the rest,
there were plenty of those, but how about the sky at night, still
unpolluted, black and wonderful, full of restless stars?
There are other memories too. A young African man, 18 perhaps, in tears,
standing in what he hopes will be his "library". A visiting American,
seeing that his library had no books, had sent a crate of them. The young
man had taken each one out, reverently, and wrapped them in plastic.
"But," we say, "these books were sent to be read, surely?" "No," he
replies, "they will get dirty, and where will I get any more?"
I have seen a teacher in a school where there were no textbooks, not even
a chalk for the blackboard. He taught his class of six- to 18-year-olds by
moving stones in the dust, chanting: "Two times two is ... " and so on. I
have seen a girl - perhaps not more than 20, also lacking textbooks,
exercise books, biros - teach the ABC by scratching the letters in the
dirt with a stick, while the sun beat down and the dust swirled.
I would like you to imagine yourselves somewhere in Southern Africa,
standing in an Indian store, in a poor area, in a time of bad drought.
There is a line of people, mostly women, with every kind of container for
water. This store gets a bowser of precious water every afternoon from the
town, and here the people wait.
The Indian is standing with the heels of his hands pressed down on the
counter, and he is watching a black woman, who is bending over a wadge of
paper that looks as if it has been torn out of a book. She is reading Anna
Karenina. She is reading slowly, mouthing the words. It looks a difficult
book. This is a young woman with two little children clutching at her
legs. She is pregnant. The Indian is distressed, because the young woman's
headscarf, which should be white, is yellow with dust. Dust lies between
her breasts and on her arms. This man is distressed because of the lines
of people, all thirsty, but he doesn't have enough water for them. He is
angry because he knows there are people dying out there, beyond the dust
clouds.
This man is curious. He says to the young woman: "What are you reading?"
"It is about Russia," says the girl.
"Do you know where Russia is?" He hardly knows himself.
The young woman looks straight at him, full of dignity, though her eyes
are red from dust. "I was best in the class. My teacher said I was best."
The young woman resumes her reading: she wants to get to the end of the
paragraph.
The Indian looks at the two little children and reaches for some Fanta,
but the mother says: "Fanta makes them thirsty."
The Indian knows he shouldn't do this, but he reaches down to a great
plastic container beside him, behind the counter, and pours out two
plastic mugs of water, which he hands to the children. He watches while
the girl looks at her children drinking, her mouth moving. He gives her a
mug of water. It hurts him to see her drinking it, so painfully thirsty is
she.
Now she hands over to him a plastic water container, which he fills. The
young woman and the children watch him closely so that he doesn't spill
any.
She is bending again over the book. She reads slowly but the paragraph
fascinates her and she reads it again.
"Varenka, with her white kerchief over her black hair, surrounded by the
children and gaily and good-humouredly busy with them, and at the same
time visibly excited at the possibility of an offer of marriage from a man
she cared for, Varenka looked very attractive. Koznyshev walked by her
side and kept casting admiring glances at her. Looking at her, he recalled
all the delightful things he had heard from her lips, all the good he knew
about her, and became more and more conscious that the feeling he had for
her was something rare, something he had felt but once before, long, long
ago, in his early youth. The joy of being near her increased step by step,
and at last reached such a point that, as he put a huge birch mushroom
with a slender stalk and up-curling top into her basket, he looked into
her eyes and, noting the flush of glad and frightened agitation that
suffused her face, he was confused himself, and in silence gave her a
smile that said too much."
This lump of print is lying on the counter, together with some old copies
of magazines, some pages of newspapers, girls in bikinis.
It is time for her to leave the haven of the Indian store, and set off
back along the four miles to her village. Outside, the lines of waiting
women clamour and complain. But still the Indian lingers. He knows what it
will cost this girl, going back home with the two clinging children. He
would give her the piece of prose that so fascinates her, but he cannot
really believe this splinter of a girl with her great belly can really
understand it.
Why is perhaps a third of Anna Karenina stuck here on this counter in a
remote Indian store? It is like this.
A certain high official, United Nations, as it happens, bought a copy of
this novel in the bookshop when he set out on his journeys to cross
several oceans and seas. On the plane, settled in his business-class seat,
he tore the book into three parts. He looked around at his fellow
passengers as he did this, knowing he would see looks of shock, curiosity,
but some of amusement. When he was settled, his seatbelt tight, he said
aloud to whomever could hear: "I always do this when I've a long trip. You
don't want to have to hold up some heavy great book." The novel was a
paperback, but, true, it is a long book. This man was used to people
listening when he spoke. When people looked his way, curiously or not, he
confided in them. "No, it is really the only way to travel."
When he reached the end of a section of the book, he called the
airhostess, and sent it back to his secretary, who was travelling in the
cheaper seats. This caused much interest, condemnation, certainly
curiosity, every time a section of the great Russian novel arrived,
mutilated, but readable, in the back part of the plane.
Meanwhile, down in the Indian store, the young woman is holding on to the
counter, her little children clinging to her skirts. She wears jeans,
since she is a modern woman, but over them she has put on the heavy
woollen skirt, part of traditional garb of her people: her children can
easily cling on to it, the thick folds.
She sends a thankful look at the Indian, who she knows likes her and is
sorry for her, and she steps out into the blowing clouds. The children
have gone past crying, and their throats are full of dust anyway.
This is hard, oh yes, it is hard, this stepping, one foot after another,
through the dust that lays in soft deceiving mounds under her feet. Hard,
hard - but she is used to hardship, is she not? Her mind is on the story
she has been reading. She is thinking: "She is just like me, in her white
headscarf, and she is looking after children, too. I could be her, that
Russian girl. And the man there, he loves her and will ask her to marry
him. (She has not finished more than that one paragraph). Yes, and a man
will come for me, and take me away from all this, take me and the
children, yes, he will love me and look after me."
She thinks. My teacher said there was a library there, bigger than the
supermarket, a big building, and it is full of books. The young woman is
smiling as she moves on, the dust blowing in her face. I am clever, she
thinks. Teacher said I am clever. The cleverest in the school. My children
will be clever, like me. I will take them to the library, the place full
of books, and they will go to school, and they will be teachers - my
teacher told me I could be a teacher. They will live far from here,
earning money. They will live near the big library and enjoy a good life.
You may ask how that piece of the Russian novel ever ended up on that
counter in the Indian store?
It would make a pretty story. Perhaps someone will tell it.
On goes that poor girl, held upright by thoughts of the water she would
give her children once home, and drink a little herself. On she goes,
through the dreaded dusts of an African drought.
We are a jaded lot, we in our world - our threatened world. We are good
for irony and even cynicism. Some words and ideas we hardly use, so worn
out have they become. But we may want to restore some words that have lost
their potency.
We have a treasure-house of literature, going back to the Egyptians, the
Greeks, the Romans. It is all there, this wealth of literature, to be
discovered again and again by whoever is lucky enough to come up on it.
Suppose it did not exist. How impoverished, how empty we would be.
We have a bequest of stories, tales from the old storytellers, some of
whose names we know, but some not. The storytellers go back and back, to a
clearing in the forest where a great fire burns, and the old shamans dance
and sing, for our heritage of stories began in fire, magic, the spirit
world. And that is where it is held, today.
Ask any modern storyteller and they will say there is always a moment when
they are touched with fire, with what we like to call inspiration, and
this goes back and back to the beginning of our race, to fire and ice and
the great winds that shaped us and our world.
The storyteller is deep inside everyone of us. The story-maker is always
with us. Let us suppose our world is attacked by war, by the horrors that
we all of us easily imagine. Let us suppose floods wash through our
cities, the seas rise . . . but the storyteller will be there, for it is
our imaginations which shape us, keep us, create us - for good and for
ill. It is our stories that will recreate us, when we are torn, hurt, even
destroyed. It is the storyteller, the dream-maker, the myth-maker, that is
our phoenix, that represents us at our best, and at our most creative.
That poor girl trudging through the dust, dreaming of an education for her
children, do we think that we are better than she is - we, stuffed full of
food, our cupboards full of clothes, stifling in our superfluities?
I think it is that girl and the women who were talking about books and an
education when they had not eaten for three days, that may yet define us.
© The Nobel Foundation 2007

venerdì 7 dicembre 2007

Lettera al Ministro D'Alema sulla questione irachena

Hola carissim*,
vi invito a firmare la lettera inviata al Ministro delgli Esteri Massimo D'Alema dall'associazione Un ponte per.
Caire atque vale
Giuseppe



Nei prossimi giorni gli Stati Uniti sottoporranno al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, di cui l'Italia è attualmente membro, una proposta di risoluzione che prevede una ulteriore estensione del mandato della "Forza multinazionale" in Iraq...

L’ITALIA VOTI CONTRO LA PROROGA DELL’OCCUPAZIONE DELL’IRAQ
AL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL’ONU

Lettera aperta al Ministro degli Affari Esteri Massimo D'Alema


Caro Ministro,
nei prossimi giorni gli Stati Uniti sottoporranno al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, di cui l'Italia è attualmente membro, una proposta di risoluzione che prevede una ulteriore estensione del mandato della "Forza multinazionale" in Iraq.
La risoluzione sarà basata sulla richiesta in tal senso che verrà avanzata dal primo ministro iracheno Nuri Al Maliki. Tuttavia questa richiesta è illegittima. La Costituzione irachena richiede chiaramente che tali atti siano ratificati dal Parlamento. Il che allo stato attuale non è.
Nello scorso aprile 144 deputati iracheni, la maggioranza dei membri del Parlamento, che pure è stato eletto sotto l'occupazione statunitense, hanno firmato una lettera che chiede venga stabilito un calendario per il ritiro delle truppe. La stessa lettera definisce "incostituzionale" l'eventuale richiesta unilaterale da parte del Governo iracheno di estensione della presenza delle truppe straniere.
In maggio, con un voto a maggioranza, il Parlamento iracheno ha inoltre approvato una legge che riafferma questa previsione costituzionale e prevede che ogni richiesta di estensione del mandato della "Forza multinazionale" debba ottenere una maggioranza parlamentare dei due terzi.
Infine una grande maggioranza di iracheni, come dimostrano numerosi sondaggi, richiede il completo ritiro delle truppe al più presto.
Il premier Al Maliki si prepara invece, sotto pressione statunitense, ed in spregio al parlamento, a richiedere la estensione.
Sarebbe grave se in presenza di questa situazione il Consiglio di Sicurezza rinnovasse il mandato alla "Forza multinazionale" proseguendo in questo modo a dare copertura alla occupazione militare dell'Iraq, o se, almeno, non includesse con chiarezza una data finale per il ritiro di tutte le truppe.
Sarebbe altrettanto grave se l'Italia, che ha ritirato le proprie truppe riconoscendo la illegalità della guerra all'Iraq, approvasse una tale risoluzione.
Siamo certi che ella vorrà dare precise disposizioni al nostro ambasciatore presso il consiglio di sicurezza affinché non approvi una risoluzione di proroga, o, quantomeno, subordini il voto alla fissazione di un calendario definitivo per il ritiro di tutte le truppe di occupazione.

Per sottoscrivere

Quale sicurezza?

Hola carissim*,
la parola sicurezza è sulla cresta dell'onda politica ormai da parecchi anni, ma tale vocabolo viene declinato sempre e solo come sicurezza nei confronti di episodi, di minore o maggiore gravità, di microcriminalità violenta e per di più sempre con accenti di repressione e mai di prevenzione. Al contrario io penso che non vadano trascurate molte altre sfaccettature di quel termine che invece finiscono puntualmente nel dimenticatoio: sicurezza del e sul lavoro, sicurezza di una vecchiaia dignitosa, sicurezza di un diritto uguale per tutti, etc. etc.
In quest'ottica vi propongo l'editoriale de "Il Manifesto" di ieri 7 dicembre in merito alla tragedia alla Thyssenkrupp di Torino (Nota: 'articolo parla di un solo morto, ora che scrivo il sinistro conteggio è già arrivato a 4).
Caire atque vale
Giuseppe


Flessibili da morire
Loris Campetti

Era molto flessibile Antonio,
un giovane di 36 anni ucciso
ieri alla Thyssenkrupp di
Torino. Ucciso non da un incidente,
non da un infortunio: ucciso
dallo sfruttamento selvaggio che
fa tirare amille gli impianti fino a far
esplodere le macchine e costringe a
un lavoro bestiale gli operai. Al momento
in cui quel maledetto tubo
che trasportava olio bollente è stato
colpito da una scintilla sprigionatasi
dal quadro elettrico s'è spezzato, trasformandosi
in un lanciafiamme, Antonio
e una decina di ragazzi come
lui sono stati colpiti. Tutto e tutti
hanno preso fuoco, gli estintori non
funzionavano, la linea 5 delle ex Ferriere
sembrava una città bombardata
con il napalm, raccontano i sopravvissuti.
Quando si è trasformato
in una torcia umana, alle due di notte,
Antonio era alla quarta ora di straordinario.
Dunque era alla dodicesima
ora di lavoro in quell'inferno.
Antonio era molto flessibile, come
tutti gli altri ragazzi della Thyssenkrupp.
Alle 12 ore di lavoro ne aggiungeva
ogni giorno due o tre di
viaggio da casa, nel Cuneese, alla fabbrica,
e ritorno. Non è che gli restasse
molto tempo per la sua compagna
e i suoi tre bambini, la più grande
di 6 anni e il più piccolo di 2mesi.
Antonio era proprio il tipo di operaio
di cui ha bisogno un padrone tedesco
che decide di chiudere la fabbrica
di Torino per portare la produzione
in Germania,ma prima di mettere
i sigilli agli impianti vuole tirare fino
all'ultima goccia di sangue alle
macchine e agli uomini, ai ragazzi.
Per questo una decina di loro ha preso
fuoco, nel 2007, nell'occidente
avanzato, sotto il comando di Thyssenkrupp,
un nome che se scomposto
in due rimanda ad altri fuochi, a
un altro secolo, a un'altra guerra.
C'è la fila, adesso, di quelli che si
lamentano per la mancanza di sicurezza
sul lavoro. Forse tutti si erano
distratti: presi com'erano a combattere
l'insicurezza provocata dai rumeni
si sono dimenticati della guerra
quotidiana in fabbrica, nei campi,
nei cantieri. Chi oggi dice che servono
maggiori misure di sicurezza sul
lavoro dovrebbe aggiungere che il
modello sociale ed economico dominante
è criminale. Chi chiede di produrre
di più, per più ore nel giorno e
per più anni nella vita è corresponsabile
dei crimini quotidiani sul lavoro.
La sicurezza è incompatibile con
l'accumulazione selvaggia, togliendo
dignità e diritti ai lavoratori si aumenta
l'insicurezza, sul lavoro e nella
vita.
I teorici del liberismo, della fine
del welfare, di quella che spudoratamente
chiamano flessibilità ma che
per noi è precarietà, hanno tutti i diritti
nella nostra società. Ma uno almeno
non ce l'hanno: quello di piangere
i morti sul lavoro perché quei
morti sono vittime della loro cultura
e della loro fame di danaro e di potere.
I tre bambini di quel paesino del
cuneese che si chiama Envie non
sanno che farsene delle loro lacrime.
E noi con loro.
Probabilmente i cancelli della fabbrica
torinese della Thyssenkrupp
non riaprirà mai più. Speriamo che
non riapra più, il prezzo da pagare
per tenerla aperta è troppo alto.

19 dicembre 2007: Concerto di Luigi Cinque

Hola carissim*,
vi segnalo un altro interessantissimo concerto: il 19 dicembre all'Auditorium di Roma ci sarà il concerto "Makina/Fabric", di Luigi Cinque, raffinato musiciesta ed interprete del multiculturalismo che ci presenta una musica intertnica, a cavallo di più generi e difficilmente incanalabile in uno schema prefissato; l'ho conoscuto da pochissimo, grazie al fatto che mi è stato regalato il cd de sul ultimo lavoro "Passaggi", che mi ha molto ben impressionato.
Il concerto del 19 dicembre, come lascia intuire il suo nome, è ispirato al suono della fabbrica e del lavoro e vedrà come protagonisti, oltre ovviamente a Luigi Cinque, altre figure musicali molto interessanti: da Lucilla Galeazzi all'ex Alma Megretta Raiz, dal Balanescu Quartet al trombettista di Frank Zappa Michael Gross.
Io ho messo in rilevo la data di Roma, ma sul suo myspace trovate anche le altre date in giro per la penisola.
Caire atque vale
Giuseppe

martedì 4 dicembre 2007

Un utile servizio per segnalare pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevoli e/o comparative

Hola carissim*,
vi volevo segnalare che l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un servizio per la segnalazione di pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevoli e/o comparative tranite il numero verde (ovviamente gratuito) 800166661 attivo dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 14.00.
Come mio solito, non ho perso tempo e ho immediatamente telefonato per segnalare la campagna pubblicitaria dell'offerta SuperInternet di Wind grazie alla quale possiamo avere GRATIS 50 ore di navigazione pagando solo 9 €/mese...ma, come dire, è gratis o pago 9 €/mese???
Guardate le foto qua sotto o, meglio, date un'occhiata ai cartelloni con i quali, a questo punto, non solo deturpano le nostre città, ma ci prendono pure per i fondelli.
Caire atque vale
Giuseppe




lunedì 3 dicembre 2007

8 dicembre 2007: Concerto di Filippo Gatti

Hola carissim*,
vi segnalo un altro concerto di Filippo Gatti, ex leader degli Elettrojoycee oggi uno dei migliori cantautori-poeti italiani.
Il concerto sarà alla 22.00 sabato 8 dicembre al "Conte Staccio - LiveMusic CocktailBar Restaurant" (Via di Monte Testaccio 65b).
Caire atque vale
Giuseppe